“EXCAVATION OF DESIRE/Layered sensuality on film” di Maria Palmieri

Incurabile – aggettivo d’onore, di cui dovrebbe fregiarsi una sola malattia, la più tremenda di tutte: il Desiderio”. Sono parole del grande Emil Cioran, in uno dei suoi capolavori, “Il funesto demiurgo”. Ecco il tema di questa mostra fotografica, l’ardore, il Desiderio.

La fotografia, d’altronde, è autoipnosi, meditazione immediata, un’autoanalisi che riesce, con l’approccio giusto, a rendere visibile ciò che è nascosto sotto gli strati traslucidi del mistero della realtà in perenne movimento. Essa cambia così velocemente, si evolve dinanzi ai nostri occhi e non ne cogliamo subito il senso se prima non la blocchiamo in un’immagine fissa, in un concetto, in un fotogramma. In questo modo è possibile metterla a nudo, capirla più facilmente, sondarla.

Fotografare è un processo di magia che riesce a stanare il pensiero nascosto nell’angolo più recondito della mente, a dare forma all’inconscio volere, al più doloroso bramare di cui l’essere umano sia capace, a quella “malattia” chiamata, appunto, Desiderio. Esso è qui inteso come il Sehnsucht dell’epoca romantica, quella dipendenza dal desiderare che è propria dell’uomo, del suo essere vitale, talmente potente da scaturire, sovente, in una visione eterea dell’oggetto di tale brama. Esso è l’anelito verso qualcosa di mai, ancora, attinto, qualcosa, qualcuno di futuro, incerto, magari impossibile… E’ un sentimento di profonda nostalgia del non ancora conosciuto, un terribile insetto portatore di un morbo inguaribile che punge l’anima.

La fotografia analogica è il mezzo ideale per scavare a fondo nell’insondabile abisso del Desiderio, per il suo essere così corporea e, allo stesso tempo, capace di imprimere su un supporto concreto, sul piano tattile, l’immagine del sogno. Ciò che viene fuori dallo scatto è il cono capovolto della realtà che penetra nell’occhio e nella mente del fotografo, e così ne esce stravolta, alterata, distorta. Con l’approccio analogico, nonostante si cerchi di guidare il processo, di regolarne l’esito, il risultato contiene sempre in sé un elemento inaspettato che può dipendere da chi si accinge a fotografare, da come si muove, dai suoi eventuali errori, dalla chimica della pellicola, dalla macchina fotografica, dalla sensibilità alla luce, dalle infiltrazioni, dall’ambiente circostante, dalle sensazioni che si provano in quel momento, dal calore e dalla tensione delle mani, del corpo… E’ tutto così intensamente corporeo, c’è un supporto tangibile con cui relazionarsi, il quale ha anche una sua certa dose di autonomia ingestibile.

Come scriveva Susan Sontag, nel suo saggio “Sulla Fotografia”, “scattare una fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona significa violarla, vedendola come essa non potrà mai vedersi, avendone una conoscenza che lei stessa non potrebbe mai avere. Equivale a trasformarla in oggetto che può simbolicamente essere posseduto”.

La pelle è seta sulla pellicola, l’ombra diventa consistente, i volti sono facilmente dimenticati, omessi. I corpi sono morbidi, sfumati, moltiplicati, i dettagli anatomici ispezionati senza pudore alcuno, l’odore dell’emulsione è forte, cattura l’olfatto come l’odore della cute umana, dei fluidi… ma tutto alla fine è ovattato negli strati di nebbia dell’inconscio.

Le fotografie di questo progetto, dunque, non sono altro che la rappresentazione visiva di uno stato mentale, visioni alterate dalla percezione personale delle cose. Una meditazione forte, a tratti cruda, non tanto su ciò che è oggetto delle più intime fantasie, quanto sul Desiderio in sé.

© Copyright Maria Palmieri
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