(Artsharingproject.com) Venezia, 22 ottobre 2013 – Se Jackson Pollock fosse stato scritturato per un film del genere Spaghetti Western, avrebbe sicuramente interpretato la parte del cowboy cattivo e irascibile. Dopo tutto, uno che nasce e cresce nella terra dei bisonti segnata dalle imprese di Buffalo Bill, non può che avere l’indole giusta. Primo di 5 fratelli, il piccolo Jackson mostrò da subito un caratterino da bufalo minaccioso. Non brillava particolarmente nemmeno in educazione artistica; poco male, in lui stava maturando una forza che scalpitava ad uscire.
Alla fine degli anni ’30 ci fu il trasferimento verso la grande città: New York. Lì continuò imperterrito a sfogare la propria libertà artistica a suon di pennellate violente e soggetti astratti, sostenuto da un’altra artista, Lee Krasner, pittrice dal talento sottovalutato. Tra i due nacque una relazione: per la Krasner fu la fine della sua carriera artistica, dal momento che nessuno si ricorderà più di lei se non come signora Pollock, ma fu anche l’inizio di un calvario. Già perché come ogni artista squattrinato e maledetto dell’epoca, Jackson beveva come una spugna e il temperamento focoso unito ad una dose massiccia di whisky non rendevano il maritino una persona, per così dire, a modo. Grazie alla moglie-manager-santa donna, Pollock riuscì ad entrare in contatto nientepopòdimeno che con Peggy Guggenheim, in pratica la Maria de Filippi dell’epoca (quando ancora Mediaset non esisteva e i talenti erano altri). La mecenate vide nell’artista americano un diamante grezzo che col tempo avrebbe riservato belle sorprese: quando si dice “vederci lungo”… Fu così che tra una mostra e una bevuta in compagnia di artisti come De Kooning, Motherwell e Gorky, prendeva vita un nuovo movimento artistico tutto americano: l’Espressionismo Astratto. Pollock entrò nel jet set newyorkese dell’arte; le sue tele giganti e cariche di colore entusiasmavano gli esperti del settore e lui, che non era un esperto in pubbliche relazioni, incassava gli elogi e si faceva i fatti suoi. Come quella volta che, durante la presentazione di una grossa tela in casa Guggenheim decise di urinare nel camino, in barba a tutte le signore ingioiellate presenti.
Nel 1945 Peggy aiutò la coppia, fresca di matrimonio, nell’acquisto di una casa con annesso un fienile a Long Island, alle porte di NYC. Lì, in quel fienile in cui aveva allestito il suo atelier, Pollock ebbe l’illuminazione: gettò il cavalletto dalla finestra e decise di stendere la tela sul pavimento.
Così sarebbe stato più semplice entrare nella sua opera.. e chi se ne frega se ci vai sopra con le scarpe! Il pennello da allora smise di toccare la tela: sarebbe servito come uno stecco con il quale gocciolare la vernice con un ritmo danzante, a volte veloce ed energico a volte lento e delicato. Iniziò così il ciclo di opere che lo resero celebre in tutto il mondo, quello dei cosiddetti “Drippings”. La critica e la stampa americana lo osannavano, tanto che nel 1949 la rivista Life gli dedicò un articolo titolato “Jackson Pollock. Is he the greatest living painter in the U.S.?” A corredare il testo, una serie di fotografie dell’artista in azione o in posa da duro, sigaretta in bocca e braccia incrociate. Dopotutto era questa l’immagine che piaceva di lui: quella del cowboy convertito alla pittura.
Il periodo di entusiasmo e produttività a ritmi sostenuti, tuttavia, durò poco. In fondo, quelle tele con la vernice gocciolata iniziavano a diventare ripetitive e Pollock sentiva di essere arrivato ad un punto fermo. Come andare oltre quel limite? La frustrazione lo fece ricadere nell’alcool, al quale associava l’adrenalina delle corse in macchina. Iniziò a frequentare una giovane artista, Ruth Kligman, dando il colpo di coda al matrimonio con Lee Krasner, giunto ormai agli sgoccioli.
La sera dell’11 agosto 1956 Pollock, la sua nuova fiamma e un’amica salgono in macchina per andare ad una festa. Jackson è su di giri, sbronzo e disperato, piange e ride, spinge sull’acceleratore, la macchina finisce fuori strada e si schianta contro un albero. L’amante, ironia del destino, è l’unica a salvarsi. Jackson muore sul colpo alimentando il mito dell’artista maledetto morto precocemente e travolto dalla disperazione.
Un uomo destinato a diventare leggenda, sia sulle riviste che sui manuali d’arte contemporanea. Uno di quegli artisti che creano una cesura nella storia dell’arte mettendo in dubbio tutto quello che c’è stato prima e che ci sarà dopo. Non è questo, in fondo, quello che fanno i geni?