(Adriana Ricci – www.arteecritica.it) Roma, 07 Settembre 2013 – Tempo, memoria, identità culturale, rapporto con lo spazio. Questi i temi che Fiona Tan affronta al MAXXI di Roma con Inventory, personale curata da Monia Trombetta. Da Correction a Disorient, da Inventory a Cloud Island, si alternano nelle sale video e installazioni realizzati dopo il 2004 che intessono una rete di rimandi visivi, culturali e architettonici. La mostra è occasione per una riflessione sull’opera dell’artista
Correction, 2004, courtesy l’artista e Frith Street Gallery, Londra.
Le opere di Fiona Tan respirano. L’ho pensato quando ho visto Cloud Island alla Frith Street Gallery di Londra due anni fa. Questo mediometraggio di 45 minuti, attualmente al MAXXI di Roma con la mostra Inventory, mi richiamò certe memorie adolescenziali da tempo assopite, di quando, alle prime armi con sentimento e letteratura, ero tutta assorbita nelle poesie della Dickinson e nei drammi cechoviani. Durante il film, infatti, mi sovvenne un momento di inedita e intensa compassione che provai anni prima leggendo di una lettera che la Dickinson aveva inviato ad un potenziale editore, dove gli chiedeva: “La prego Signore, mi dica se i miei versi respirano”. All’epoca ricordo di aver pensato all’imponderabile angoscia che può condurre un’artista di tale calibro ad abbandonarsi al giudizio altrui, anche quando l’evidenza della vitalità nel proprio lavoro è tanto scottante. D’altro canto, invece, questa innocente richiesta mi fece pensare al concetto di vita, respiro appunto, nell’opera d’arte. Da allora ho speculato sulla possibilità di individuare, pinpoint, come l’entomologo fa con la farfalla,ciò che potrebbe definirsi “vivo” in un’opera d’arte. Non mi accorsi se non in seguito che le opere e i versi che respirano non sono molti. Ignoravo che non tutti gli artisti condividono questo genere di angoscia distillata, di sapienza chiaroveggente, di passione per la ricerca sfrenata della vita nelle minuzie del quotidiano. Tale tipo di ricerca, espresso dall’umile frase della mia amata poetessa e nei suoi versi, è quello che più mi emoziona in ogni testo, opera od oggetto con cui vengo a contatto. Dopo anni di opere che mi erano sembrate silenziose ed immobili, ecco però ripresentarsi, ancora una volta, il respiro di artista: un’opera viva. Le opere della Tan sono in questo senso “fatte” di respiro. Vi è intessuto all’interno, ne è la maglia che produce il pattern, e vi è presente in ogni possibile declinazione: in forma di vento, sussurri, sospiri, fiabe raccontate a bassa voce. L’aria, per esempio in forma di nuvole nel caso di Cloud Island, è un elemento ricorrente e strutturante in ogni opera: che si tratti di oggetti, persone o isole, non vi è alcunché di inanimato nei suoi lavori, tutto ha vita. E sebbene negli anni in cui ho indagato su questa artista non mi sia capitato di leggere alcun testo che menzionasse tale elementare presenza nella sua ricerca, io vedo in essa delle conseguenze disarmanti e una raffinatezza e complessità che sono da pochi. In passato ho scritto sul valore politico dei suoi lavori come il frutto di un meraviglioso espediente di stile, una poetica che, tanto peculiare quanto rivoluzionaria, ha riformato la concezione dell’arte politica che fino ad allora avevo avuto. Tale poetica è esemplificata dalla parola countenance, che è il titolo – intraducibile in italiano se non con la parola “contegno” – di un’opera della Tan del 2002. Questo lavoro è un insieme di video-ritratti in cui il soggetto, di solito in piedi, guarda nell’obiettivo della cinepresa per la durata di un minuto. La durata temporale del ritratto stabilisce in tal modo una distanza vitale, riempita di respiro e aspettazione, tra lo spettatore e il soggetto ritratto, diventa un vero e proprio incontro alla pari. Quest’opera fa pensare alle parole della filosofa e psicoanalista Luce Irigaray, quando dice che tra gli esseri umani non vi può esistere separazione, dal momento che ogni distanza percepita è percorsa dal respiro che condividiamo e dall’aria in cui siamo immersi. Ma quali sono le conseguenze di questa condivisione? La risposta a questa domanda è tanto complessa in teoria quanto evidente sul piano empirico nelle opere di questa artista. Le conseguenze riguardano l’umana incapacità di assentarci completamente, di negare in maniera totale, di sottrarci all’interazione con il mondo che ci circonda. Anche in altre opere, nei suoi ritratti in movimento, nei silenzi dove il mondo si ascolta, osserviamo l’occhio della videocamera che indugia e si posa come un’ape, da un volto all’altro, da un oggetto ad un altro, vagabondo e curioso, e ci accorgiamo che tale occhio ha qualcosa di organico, di biodegradabile, di umano.
Veduta della mostra inventory, MAXXI, Roma, 2013, foto Flaminia Nobili.
Ecco, mentre in certi film che hanno una certa qualità “sensazionale” la cinepresa sembra fornire un’immagine data dall’occhio di Dio, nei video della Tan, l’occhio, da un lato e dall’altro dell’obiettivo, è sempre umano. Questa durata “animata”, vibrante e suffusa, farebbe di queste opere un eccellente mezzo mediatico propagandistico sfruttando tale potere di immedesimazione, ci sentiamo infatti ineluttabilmente coinvolti e commossi, se non fosse per il fatto che questi lavori non denunciano nulla.Non vi è in essi un messaggio politico o sociale chiaro, non sono persuasivi, non si schierano da nessuna parte e restano in qualche modo neutrali eppure coinvolti in ciò che ci mostrano. In tal senso vedere un suo video è come incontrare qualcuno per la prima volta. Forse è questa la ragione per la quale nessuno ha mai accennato alla qualità politica dei suoi lavori: per l’erronea considerazione che senza denuncia, schieramenti e accadimenti di qualche genere non vi possa essere un messaggio politico. Per fortuna, successivamente a questa intuizione sul valore politico dei suoi lavori, un’intuizione che era priva di mezzi di comparazione e dunque difficilmente dimostrabile, ebbi l’opportunità di entrare in contatto con un testo che, insieme a queste opere, contribuì a rivoluzionare la mia idea di arte politica. Intitolato Of What One Cannot Speak: Doris Salcedo’s Political Art, della critica e filologa olandese Mieke Bal, questo testo ha l’autorevolezza di un manuale di filosofia sull’arte politica in epoca contemporanea. “Di quello di cui non si può parlare”, così il titolo in italiano, tratta di una qualità dell’arte di Salcedo come “reticenza”. Il testo analizza infatti il silenzio come “non-vuoto” animato da contraddizioni irrisolvibili e ricchezza di significato. Purché statico, nel caso di Salcedo che realizza installazioni e sculture, siamo al cospetto di qualcosa di comunicativo. Eppure, nella stessa parola reticenza si può riscontrare un valore definitivo, statico appunto, che è sconosciuto alle opere della Tan. Nei suoi ritratti durevoli, come momenti vissuti, figurano volti, voci e luoghi riguardo ai quali parlare di contegno, countenance appunto, sembra più opportuno. Il contegno, sebbene rappresenti una forma di repressione quando inteso nel senso di “continenza”, ha una qualità più emotiva e meno domabile della reticenza. Non è una decisione deliberata bensì dettata dalle circostanze. Il “darsi contegno” è un’azione consapevole della mancanza di altre vie percorribili.
Veduta della mostra inventory, MAXXI, Roma, 2013, foto Flaminia Nobili.
È questa caratteristica della parola contegno che richiama ai significati in lingua inglese di countenance come tolleranza, come un accontentarsi, e di countenance come “espressione facciale”. Ci sono cose di cui non si può parlare, su questo entrambe le artiste si troverebbero d’accordo, ma entrambe hanno sperimentato la capacità di dire senza parlare. E non si tratta qui di un esperimento alla John Cage ma di una impossibilità riconosciuta di menzionare cose che sono emozionalmente incomunicabili. In questo senso la potenzialità del mezzo visuale risiede nella possibilità di mostrare il silenzio e usarlo come mezzo comunicativo per suscitare empatia. Silenzio e attesa rendono possibile un incontro più libero e onesto tra spettatore e soggetto, che permette di ascoltare il respiro reciproco e la minuziosa pienezza di un momento, il profumo di un oggetto riciclato appartenuto a qualcuno che non esiste più. Per questo le opere della Tan e quelle di Salcedo possiedono un potere che è efficace in senso politico: inteneriscono il terreno del cuore permettendo a significati più nascosti di attecchire. In tal modo diventano il veicolo di qualcosa che trascende loro stesse: come versi della Dickinson la cui “delicatezza” resta insuperata nel veicolare le emozione umane e il senso di comunione di tutti gli esseri.